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Delusioni blogosferiche

Sono un po’ sorpreso, ma non posso negare che questo post mi abbia lusingato. Anche considerato il “pulpito”, nel senso migliore del termine, da cui proviene: un blogger che da tempo seguo con interesse e che pondera sempre molto bene quello che dice. Quindi grazie per le parole di apprezzamento, sperando di non deludere in futuro, anche perché questo è un blog che, si sa, fa come i delfini: appare e scompare … Ma soprattutto grazie per la riflessione sulla blogosfera, la grande delusione di questi anni, infatti non potrei essere più d’accordo sul giudizio complessivo.

Non sono tra i destinatari del messagio e-mail che il direttore del “Giornale” ha inviato ai lettori iscritti alla community on-line del quotidiano, però posso rimediare subito. Ma questo non è il problema. Giordano chiede di testimoniare perché si ritiene che l’Italia ce la possa fare, perché, nonostante tutto, “ci si crede”. Beh, devo dire che la risposta, una fiducia “condizionata”, che si legge qui non è solo quella dell’autore: è anche la mia.

“Autobiografia di un commesso viaggiatore” è un libro attualissimo … pubblicato per la prima volta su “The New Republic” nell’ottobre 1935. E’ di John Cheever, questa “chirurgica rappresentazione della crisi economica del ’29”. Qui se ne riportano alcune pagine.

Antonio Polito dice la sua e fa il punto della situazione sulla vicenda Alitalia. Uno sforzo encomiabile, almeno dal punto di vista di chi ritiene (me compreso) che tutta la storia sia incomprensibile, paradossale, pirandelliana e quant’altro. Ecco il tentativo del direttore del “Riformista”, una lettura comunque molto istruttiva:

L’aspetto inconfondibilmente italiano di questa storia è che c’è un sacco di gente che festeggia il disastro. I lavoratori Alitalia a Fumicino, con le braccia alzate come se avesse segnato Totti. Una buona metà dei soci Cai, gente come Ligresti e Gavio, che nella cordata c’erano entrati obtorto collo e che salvano il danè. E forse perfino Banca Intesa: con i chiari di luna dei crac americani c’è chi dice che festeggi pure Passera, che ora ha altro cui pensare piuttosto che mettersi a far volare gli areoplanini. Se si cercasse un’immagine, per descrivere quel Titanic che è diventata l’Italia, basterebbe questa: il fallimento di una delle più grandi industrie del paese fa felice buona parte dei lavoratori e degli imprenditori che l’avrebbero dovuta far volare.

Poi certo, ci sono gli sconfitti, e sono tanti. Il primo è Toto. Adesso quella che rischia di fallire davvero è Airone, che era anche la vera «salvata» dal piano Passera. Poi Epifani, su cui si è già scatenata l’ondata di ludibrio pubblico orchestrata dal governo. Poi Colaninno, il capitano coraggioso che ha rischiato la faccia mettendosi in affari con Berlusconi per amor d’impresa, che ci ha messo il cuore e il portafoglio per tornare tra i grandi del capitalismo italiano, e non ce l’ha fatta. E infine, last but not least, Silvio Berlusconi.

Si ha un bel dire: Berlusconi ne esce bene comunque. In fin dei conti il suo l’ha fatto: aveva promesso la cordata italiana e cordata è stata. Aveva promesso gli aiuti di stato e li ha dati. Ora può dare la colpa ai comunisti, a Epifani, a Veltroni, ai piloti, che hanno fatto saltare il suo capolavoro. Può perfino dire: per la prima volta in Italia non abbiamo ceduto a una corporazione, per la prima volta in Italia abbiamo fatto la Thatcher. Tutto vero, per carità. Nessuno può dire che l’esito tragico della trattativa sia imputabile a Berlusconi, anche se la trattativa l’hanno condotta i suoi ministri, dal primo all’ultimo giorno. Ma il problema è che la Thatcher è passata alla storia per la lotta contro i minatori perché l’ha vinta, non perché l’ha fatta. C’è poco da discutere: se alla fine Alitalia fallirà, sarà stato un fallimento di Berlusconi, per quante attenuanti possa vantare.

Due erano le partite su cui il premier aveva giocato la sua partenza sprint: io risolvo il problema dell’immondizia, io risolvo il problema dell’Alitalia. Io faccio ciò che Prodi non è riuscito a fare. L’immondizia è sparita, evviva. Ma se spariscono anche gli aerei Alitalia, il colpo d’immagine è durissimo. Soprattutto se le procedure fallimentari porteranno all’onta nazionale di un’Italia senza voli per un mese o due. Berlusconi pagherà retrospettivamente lo zelo che impiegò a far fallire l’accordo con Air France. E pagherà la debolezza intrinseca di un piano industriale che disegnava una compagnia piccola piccola, troppo piccola per durare, dunque già nelle fauci di AirFrance e Lufthansa. Una compagnia che basava la sua speranza di business sul monopolio della tratta Milano-Roma, per la quale il piano industriale già calcolava ottimisticamente un calo del 30% del traffico a causa della concorrenza dei treni superveloci. Il fatto è che i miracoli riescono solo agli unti del Signore. E se a Berlusconi cominciano a mancare i miracoli, che Berlusconi è?

Ora non ci resta che sperare in un miracolo di ben altra e superiore provenienza. Perché il disastro dell’Alitalia è un disastro di tutti, dell’Italia e degli italiani. E la nostra Lehman Brothers. Ricorderemo a lungo questo settembre nero in cui si è infranta per sempre l’illusione nazionale che lo stellone possa salvarci sempre, anche quando abbiamo fatto di tutto, per decenni, per meritarci questo.

Sulle categorie concettuali di “statista” e “politico”, questo articolo di Andrea Romano sul “Riformista” tenta di fare un po’ di chiarezza. Eccone un estratto (ma il resto è qui):

Forse nessuno aveva avvertito Giulio Tremonti di rileggersi Harry Truman, secondo il quale «il politico è chi sa governare mentre lo statista è un politico morto da almeno quindici anni». Avrebbe forse evitato di togliere tanto prontamente la patente di statista a Massimo D’Alema, dopo avergliela concessa solo qualche mese fa in uno stucchevole slancio di generosità. In realtà il teatrino televisivo tra i due rimanda a un uso tutto italiano di una categoria che appare e scompare regolarmente dal nostro gergo quotidiano. E che discende non solo dallo stato di salute di questo o quel politico, ma soprattutto dalla sua vitalità: dalla sua capacità di accendere i nostri sentimenti, di dividere l’opinione pubblica, di mostrare un carisma niente affatto consensuale. Detta altrimenti: dalla sua capacità di «fare sangue», possibilmente sulla pelle dei nemici politici. Ed è solo quando quella capacità scompare che si ha diritto alla patente.

Camilleri e Pirandello

Mi sono imbattuto nel racconto di un dialogo piuttosto interessante, quello tra Luigi Pirandello (1867-1936) e Andrea Camilleri (1925). E’ nella introduzione di Camilleri al suo “Pagine scelte”, un libro in cui ha riportato dall’opera di Pirandello un ricco campionario di testi. Così racconta:

Ho visto, a dieci anni, arrivare a casa mia, all’improvviso, Luigi Pirandello. Nel 1935, l’anno prima che morisse. Indossava la divisa di Accademico d’Italia, e io lo credetti un ammiraglio in alta uniforme. “Cu si tu?” mi domandò in dialetto. “Nenè Camilleri sugnu” risposi.
“Ah” fece, passandomi per un attimo la mano sulla testa. E poi: “C’è tò nonna Carulina?”. “Sissì.” “Chiamamilla.
Dicci ca c’è Luicinu Pirannellu.”
Andai nella stanza dove mia nonna dormiva (erano le tre di un pomeriggio afoso) e la svegliai: “Nonna, c’è un ammiragliu ca si chiama Luicinu Pirannellu e ti voli parlari”. Mia nonna emise una specie di gemito e saltò giù dal letto. Andai nella camera dei miei genitori. “È vinuto un ammiragliu ca si chiama Luicinu Pirannellu.”

Una pagina, inutile persino sottolinearlo, assolutamente deliziosa, ma anche struggente, divertente …

Spiazzamenti

Prima o poi mi dovrò decidere a raccontare quello che mi è successo oggi. Avere ragione non basta a “sentirsi nel giusto”, questo è l’insegnamento che posso trarre. Certo che la realtà è infinitamente più fantasiosa della fantasia più sfrenata: pensare che non c’è quasi nulla che non possa verificarsi, a dispetto di qualsiasi logica, sarà stimolante per i romanzieri, ma per la gente qualunque … A qualcuno piace essere completamente spiazzato e, sia pure in maniera quasi divertente, non sapere assolutamente che pesci pigliare di fronte alle reazioni che a volte ha la gente? A me non esattamente …

L’eredità di Prodi

Una bella riflessione di Edmondo Berselli (“La Repubblica”) sull'”eredità” di Romano Prodi. Berselli mi pare colga aspetti e risvolti importanti, e inoltre è uno che scrive di politica in maniera gradevole (cosa non da poco). Riproduco per intero, uscendo dal mio personale letargo, perché sarebbe un peccato perdere traccia di questo editoriale …

Si avverte un che di crepuscolare nell’addio di Romano Prodi: «Io ho chiuso con la politica italiana e forse con la politica in generale».

Sono passati a malapena due anni da quando Prodi conduceva l’ultima campagna contro Silvio Berlusconi, e tutto sembrava garantire a lui e all’Unione un successo pieno e la possibilità di un lungo governo. Non è andata così, il successo è stato zoppo, l’esperienza di governo è finita male e in poche settimane Prodi è stato oscurato. La sua linea politica è stata rovesciata dal leader del Partito democratico, Walter Veltroni, e ieri l’annuncio di “Romano” ha avuto il gusto malinconico di una fine di stagione. Una stagione prolungata, per la verità, che si presta fin d’ora a qualche bilancio. Tredici anni abbondanti di impegno esclusivo, dopo essere uscito, il 2 febbraio 1995, dalle sale del suo centro studi, e avere sussurrato ai giornalisti raccolti nell’atrio di Nomisma un suo triplice motto di rassicurazione, nell’Italia già divisa fra il tifo e l’avversione per Silvio Berlusconi: «Serenità, serenità, serenità».

Tredici anni sono un’epoca, ai ritmi sincopati di oggi; ma soprattutto hanno dato luogo a un’esperienza politica che non va ricondotta soltanto alla gestione del potere o alla scelta del perimetro delle alleanze. Il “prodismo” è esistito effettivamente. Non era un’ideologia minore: assomigliava piuttosto a una concezione realistica e prudente, ma non pessimistica, della nostra società. Alle elezioni del ’96 Prodi ha trasmesso ai cittadini un’idea politica riconoscibile, la sua alternativa alle sbrigative ricette berlusconiane: una via di modernizzazione temperata dal buon senso, con un occhio al mercato e l’altro alla dottrina sociale della chiesa, e alla “economia sociale di mercato” di Konrad Adenauer e Ludwig Erhard.

Lo strumento per questo progetto informale era l’Ulivo, inventato dal suo consigliere Arturo Parisi. «Un imbroglio prodiano», secondo i suoi critici più aspri, come Francesco Cossiga. Una mascherata, nel giudizio di Berlusconi, per camuffare le fattezze del potere vero, quello dei «comunisti». Tuttavia, alla resa dei conti il giudizio più plausibile è che la concezione prodiana («la mia visione dei fatti», come recita il titolo del suo ultimo libro, appena pubblicato) abbia costituito in realtà il tentativo estremo di dare una chance alla sinistra. Meglio, alle sinistre. E a tutti coloro che non volevano conformarsi all’ideologia berlusconiana.

Era una ciambella di salvataggio, davanti al successo della destra. Uscita con scissioni e perdite di identità dall’Ottantanove, distrutta politicamente nel 1994, ai tempi della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, incapace per condizionamento storico e ideologico di aderire a una variante socialdemocratica, una sinistra molteplice ha pensato di trovare nel progetto abbozzato da Prodi una ragionevole via d’uscita. Ha trovato sulla sua strada segmenti della sinistra De e del cattolicesimo sociale. L’ex democristiano (d’area) “Romano”, il centrista per eccellenza, il tecnocrate dell’Iri, l’economista capace di rivolgersi a operai e borghesia illuminata, offriva risorse pratiche e ideali capaci di unire laici e cattolici, ex comunisti ed ex democristiani, borghesia illuminata e lavoro dipendente.

È vero che il prodismo era un congegno a bassa intensità ideologica. Ma si proponeva come un’alternativa secca a Berlusconi. Di fronte all’edonismo televisivo e comportamentale del centrodestra proponeva ragioni etiche, contro «quelli che parcheggiano in doppia fila» propugnava civismo, rispetto al consumo vistoso evocava addirittura concetti inattuali come la sobrietà.

In termini di realismo, e cinismo, politico, il prodismo sarebbe poco più che una sensibilità generica, sostenuta da una consumatissima vocazione a gestire pezzi di establishment. Si tratta di un giudizio che contiene unaparte di verità: due mandati al vertice dell’Iri fanno curriculum e addestrano al potere. Tuttavia, mentre il pianeta di Prodi declina all’orizzonte, non convince affatto evocare una «rimozione», come ha fatto Ernesto Galli della Loggia, come se fosse un riflesso pavloviano della mentalità di sinistra o perfino dell’antropologia comunista. E non aggiunge chiarimenti accennare al cattocomunismo e al dossettismo, vizi ideologici di cui Prodi è stato spesso accusato da destra, ma che non appartengono alla sua cultura.

Se è vero che nell’uscita di scena di Prodi c’è un elemento psicologicamente rilevante, che colpisce anche sul piano umano, non ci si può nascondere comunque che Prodi scompare di vista perché è stato decostruito lo schema politico di cui si era fatto leader e interprete. Il prodismo si esaurisce infatti quando Veltroni mette il Pd in corsa solitària. Finisce lì non soltanto l’idea prodiana dell’alleanza larga, dal centro a Rifondazione comunista, ma anche la nozione dell’alternativa al berlusconismo sostenuta dalle idee di “Romano”: il risanamento finanziario perseguito prima con Ciampi e poi con Padoa-Schioppa,l’affidabilitàinternazionaie del governo, il consenso a Maastricht e all’Unione europea, con iniezioni di solidarietà sociale e di sapienza mediatoria, e l’annuncio di sacrifici oggi per consentire la redistribuzione domani.

Solo che questa prospettiva si è arenata subito, alla prima legge finanziaria dopo la vittoria dimezzata del 2006, quando i sondaggi sono crollati e il governo Prodi è diventato per molti il governo «delle tasse». Avrebbe avuto bisogno di tempo, e forse anche di una lunga congiuntura economica favorevole. E poiché il tempo è mancato, è stato necessario decostruire il paradigma, procedere a una strategia radicalmente nuova, «correre da soli».

Anche perché l’epoca di Prodi era modellata dal sistema maggioritario; mentre l’esperienza di Veltroni si sviluppa di nuovo dentro il sistema proporzionale. Non c’è più bisogno, a quanto si vede, di battere l’altra metà dell’Italia politica, e di organizzare la resistenza alla destra. Occorre semplicemente rendere competitivo un partito contro un altro partito. E l’esito di una tardiva secolarizzazione politica. Per diversi aspetti la situazione si sdrammatizza. A dispetto dei programmi lacerati in pubblico e ridotti a carta straccia, l’orizzonte non sembra quello della battaglia di civiltà. Ma detto questo occorrerà anche augurarsi che in un prossimo futuro non ci sia da coltivare la nostalgia per quell’identità un po’ indistinta, per quella politica fatta anche di buoni sentimenti, per quella serietà lievemente noiosa e alla fine impopolare, in cui si riassumeva, nonostante tutto, il prodismo.

Un tuffo nel passato

Piero Ostellino sul Corriere di oggi:

La lettura dell’ odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista » di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia », la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell’economia di mercato.

Simboli di un’epoca

Un evento di cronaca può mai assurgere a simbolo di un’epoca, esprimendone l’anima, il clima spirituale e morale? Credo di sì. Questo, quanto meno. In un post particolarmente acuto ho letto un’analisi che illustra perfettamente il come e il perché.